Diverse sono le ipotesi che si sono sostenute sull'origine della città di Patti: alcune fantasiose, altre semplicistiche, altre ancora molto riduttive dal punto di vista storico, ma le recenti scoperte archeologiche dimostrano che l’esistenza di un nucleo abitato ed organizzato esisteva già nell’VIII° -X° sec a. C.
A questo periodo risale, infatti, la necropoli di contrada Monte. In parte visibile dalla strada provinciale Patti-Sorrentini ed a circa 1 km dalla città, il sito archeologico presenta un'estensione di circa 16 ettari, ingloba parte della contrada Monte e tutta la contrada Valle Sorrentini, ambedue nel territorio comunale di Patti.
La necropoli si estende sui pendii della collina calcarea e scende giù verso Valle Sorrentini, dove le tombe sono in pianura e hanno accesso mediante pozzo e scalino. Sul versante est, che guarda verso Patti, è stata notata una lunga scala, larga almeno 3 m e realizzata nella roccia, che porta sulla sommità della collina, dove pare che non vi sia alcuna tomba, ma sarebbe interessante sapere se i ruderi che vi sono nel pianoro a nordovest possano essere riconducibili ad un anaktoron.
A seguito delle incursioni dei Siculi e degli Ausoni, è possibile che questi si siano amalgamati alle popolazioni locali, ne abbiano incrementato la consistenza a tal punto da rendere insufficiente l'area di contrada Monte e che abbiano, insieme, creato un'altra comunità ad oriente del torrente Provvidenza, dando origine ad un nuovo primo nucleo abitato. Siamo nel XIII-XII sec.
Questo nuovo insediamento urbano fu denominato "Epacten" (Έπακτήν) che, risalendo alla etimologia greca significa: sulla sponda, sul promontorio, presso le acque che rimane la tesi più accreditata sull’origine della denominazione “Patti”.
La città, che si estendeva fino al mare, nella sua parte più a sud, era delimitata da due corsi d’acqua attualmente denominati Provvidenza e Acquafico. Trovano così giustificazione gli affioramenti ellenici a nord dell'attuale ospedale e le "notizie" su altre strutture venute casualmente alla luce durante lavori di costruzioni private.
Il nucleo più antico si chiamava Policne, dal greco Πολίχνη, dal quale deriva l’attuale denominazione del quartiere Polline, incrementatosi, durante il periodo di maggior prosperità che molto probabilmente coincise con i 60 anni di pace che la zona godette, dopo la vittoria di Timoleonte, nel IV sec a.C.
Nel centro storico, nel corso di alcuni lavori di scavo, eseguiti per diversi motivi nelle zone in questione, sono venute alla luce anforette, alcune delle quali finemente decorate, materiale lapideo di riutilizzo e cocci di terracotta risalenti a vari periodi.
Con la scoperta della Villa Romana, si ha un’ulteriore conferma che la zona era interessata da insediamenti abitativi per il periodo che va dal III sec. a.C. al X sec. d.C. Sotto le strutture romane della Villa del I sec. d.C. sono venute alla luce opere murarie di epoca precedente, per cui il complesso monumentale vede sovrapposti ben quattro periodi, senza contare la chiesetta di Sant'Erasmo: il pre-romano verosimilmente ellenico; il romano del I sec. d.C.; il romano del IV sec. d.C. e il bizantino. I reperti rinvenuti provano che la Villa è stata abitata, anche se parzialmente, fino al X-XI sec. d.C.; dopo, anche perché iniziavano le incursioni dal mare, gli abitanti si saranno sicuramente rifugiati in area più sicura, quale poteva essere la città di Patti, ormai fortificata.
In questo contesto è fondamentale la storia di Tindarys.
Tindari è una frazione di Patti e la sua vita è ovviamente strettamente collegata a tutto il territorio e a quella della Magna Grecia. La fondazione di Tindari, che viene fatta risalire dagli storici al 396 a.C., fu voluta da Dionisio, tiranno di Siracusa, il quale, volendo creare un posto fortificato e strategico per fronteggiare eventuali incursioni dei Cartaginesi, inviò in tale località, naturalmente difesa, alcuni Greci che avevano trovato rifugio a Messana e che erano in gran parte Locresi e Messeni, con una sparuta presenza di Medmei.
La denominazione di "Tyndaris" si fa risalire ad eventi mitologici. I coloni greci, infatti, erano particolarmente devoti ai Dioscuri Castore e Polluce, che secondo la leggenda erano figli di Giove e di Leda, moglie di Tindaro re di Sparta, e venivano chiamati Tindaridi. Tutto questo ha indotto i fondatori della colonia a denominare la regione Tindaride e la città alla quale questa faceva capo Tyndaris. I Dioscuri furono nominati protettori della città, come attestano parecchie monete rinvenute durante gli scavi. Altro evento, legato alla mitologia, è quello relativo allo sbarco di Oreste e alla introduzione nella Tindaride del culto di Diana Facellina.
Con la costruzione del tempio di Diana, presumibilmente in contrada S.Cosimo, alla Tindaride si affiancava l’Artemisio, nel quale si trovava il Nauloco. Quest’ultima località era un porto militare, i cui reperti potrebbero essere quelli esistenti in contrada Sipio e sui monti Perrera e Russo.
Poche sono le azioni o gli interventi di Tindari nelle guerre di Sicilia. Comunque le alleanze militari strette dai Tindaritani portarono spesso alla città onori e conseguenti anni di pace e prosperità. Tindari fu una delle prime città nel 344 a.C. ad allearsi con Timoleonte, quando questi partendo da Corinto mosse contro il tiranno di Siracusa, sconfiggendolo. A seguito dell’alleanza e della vittoria di Timoleonte, Tindari godè circa 60 anni di pace e prosperità, durante i quali la città si ingrandì e si arricchì di bellissimi monumenti e templi.
All'inizio della prima guerra punica, Tindari si alleò con Cartagine, nonostante il volere contrario della maggioranza dei suoi cittadini, che volevano allearsi con i Romani. L'arresto di alcuni eminenti rappresentanti della città da parte dei Cartaginesi fece ribaltare la situazione. Dopo che i Romani conquistarono tutta la costa settentrionale della Sicilia, nel 254 a.C., Tindari, si alleò con essi e così rimase anche durante le altre guerre puniche e quelle degli schiavi.
Cicerone, durante la sua visita a Tindari, effettuata per indagare sulle malefatte di Verre, giudicò la città così prospera e bella che le diede l'appellativo di "nobilissima civitas". Contro Tindari, Verre perpetrò uno dei suoi più gravi delitti. Il console volle per sé la statua d'oro di Mercurio, donata alla città da Scipione l'Africano in segno di riconoscenza per la fedeltà, la lealtà e per una fornitura di navi fatta durante la spedizione contro Cartagine del 204 a.C. Non si ricordano altri episodi di portata storica considerevole, eccezione fatta della battaglia fra Pompeo ed Ottaviano avvenuta nel 36 a.C.
Nell’anno 17 d. C. la città fu colpita da un evento tellurico che pare ne abbia fatto scivolare una piccola parte, lato nord, a mare. Plinio il Vecchio, dall'anno 23 all'anno 79 d.C., elenca in Sicilia 63 città importanti, fra le quali evidenzia la prosperità di Siracusa, Catana, Tauromenio, Tyndaris e Messana, tutte colonie romane. Il periodo romano-imperiale segna l'inizio del declino di Tyndaris anche se nel I° secolo la situazione riprese a migliorare e, per effetto del momentaneo riassetto economico, si edificarono altre case e si modificò il teatro greco in anfiteatro.
Nel IV secolo d.C. il declino si accentua inesorabilmente senza interruzione. Risultano edificate case su preesistenti edifici di origine ellenica e, nel tardo impero, si è dovuta ricostruire parte della cinta muraria andata distrutta per fatiscenza, riutilizzando materiali provenienti da edifici abbandonati. Nel periodo bizantino la città era molto più piccola e priva di quella importanza politico-economica che aveva un tempo. Nel IX secolo, gli arabi ne completarono definitivamente la distruzione, costringendo i pochi abitanti ad emigrare in altri siti, compresa Patti, ormai fortificata.
Tornando a questa località, i recenti restauri della Basilica Cattedrale e della Chiesa di S.Ippolito hanno portato alla luce reperti di costruzioni che coprono il primo millennio.
Lo storico Vito Amico nel Lexicon Topographicum Siculum sostiene che il nucleo abitato di Patti esisteva al tempo dell'imperatore Traiano, cioè nel II° sec. d.C.
Con bolla del 1094, il gran conte Ruggero d'Altavilla fondava in Patti il monastero del SS. Salvatore, nominando abate il frate benedettino Ambrogio, reggente il monastero di Lipari, ed al quale dava funzioni vescovili.
Nel 1115, amareggiata per l'immane delusione avuta dal suo secondo sposo, si ritirò in Patti la regina Adelasia, moglie del gran conte Ruggero e madre di Ruggero II°, primo re di Sicilia. Adelasia, figlia di Manfredo, marchese del Monferrato, sposò Ruggero d'Altavilla, che era giunto al terzo matrimonio. Dal matrimonio nacquero due figli: Simone, deceduto a soli 10 anni, e Ruggero.
Rimasta vedova, Adelasia regnò saggiamente sulla contea di Sicilia e Calabria fino al raggiungimento della maggiore età del figlio Ruggero; stabilì la capitale in Palermo e, seguendo l'insegnamento del marito, tenne sotto controllo le conflittualità fra i nobili e fra le varie componenti religiose (rito bizantino e latino), dando alla Sicilia un periodo di grande prosperità e pace. Quando nel 1112 ella decise di andare in seconde nozze a Baldovino, re di Gerusalemme, con l'impegno che, se non fossero nati figli, quest'ultimo regno sarebbe andato a Ruggero, iniziò il suo declino e più che altro la sua infelicità. Dopo due anni dal matrimonio e solo perché Baldovino fu costretto a sciogliere un voto in punto di morte, Adelasia scoprì che suo marito era già sposato e che, in virtù di quel voto, la moglie legittima doveva riprendere il proprio posto. Adelasia, truffata, derubata delle immense ricchezze che aveva portato in dote, affranta dal dolore per la grave delusione subita, non ebbe il coraggio di rientrare alla corte di Palermo e stabilì la sua residenza in Patti.
Adelasia morì nel 1118 e, per sua scelta, fu sepolta in una cappella del monastero. Oggi la sua sepoltura si trova nella Cattedrale in un sarcofago rinascimentale ubicato nella cappella di Santa Febronia.
Nel 1197 moriva Enrico VI°, incoronato re di Sicilia dall'arcivescovo di Palermo Bartolomeo Offmil, dopo la morte di Tancredi, ultimo erede della dinastia Normanna. Essendo ancora minorenne il futuro Federico II, fu nominato reggente del regno di Sicilia il conte di Brenna.
Grazie alla buona politica del vescovo di Patti, Stefano, gli Svevi instaurarono buoni rapporti con la Chiesa pattese, tant'è che il conte di Brenna, mentre era nella sue funzioni, credette opportuno fare visita al Vescovo Stefano che volentieri l'ospitò. Il Conte, durante questo soggiorno, morì a seguito di un intervento chirurgico al quale fu costretto a sottoporsi nella nostra città, per violenti dolori provocati da calcoli renali.
Nel 1208 Federico II si insediò ufficialmente con pieni poteri quale re di Sicilia;
con una politica energica riprese in pochissimi anni il controllo del regno e punì i ribelli ed i più riottosi. Fra le vittime della repressione vi fu l'abate di Naso, Guerras, che fu spogliato di tutti i suoi beni, a favore del Vescovo di Patti. Quindi Federico donò alla Chiesa pattese i possedimenti della chiesa di San Lorenzo di Carini e il casale della Rocca di Misilmeri completa di villani e terre coltivate.
Con la sconfitta di Corradino avvenuta il 23 agosto 1268 a Tagliacozzo, si concluse la dinastia Sveva in Sicilia ed iniziava la dominazione angioina. L’inizio di questa nuova era fu per Patti particolarmente vivace per via dell’azione del vescovo Bartolomeo Varellis. Per i continui tentavi di riacquisire il potere temporale sulla città che si concretizzava nella nomina dei giudici e degli ufficiali cittadini, nonché per la volontà di imporre decime ai pattesi, si attirò l’ira di Manfredi prima, l’inimicizia di Carlo D’Angiò dopo e le antipatie dei suoi stessi concittadini. La tensione fu tanta che Manfredi lo cacciò da Patti e lo sostituì con l’antivescovo Bonconto di Pendenza.
Nel 1266, dopo la conquista della Sicilia da parte degli angioini, il Varellis rientrò in città sperando di ottenere dal nuovo re quel potere temporale che non era riuscito ad ottenere prima. Ma Carlo d’Angiò, vedendo di buon occhio la laicità della popolazione rigettò le richieste del Vescovo che iniziò una lotta contro gli stessi pattesi che culminò con una serie di scomuniche emesse prudentemente dalla curia di Messina. Frattanto in città era scoppiata una rivolta durante la quale alcuni facinorosi assaltarono il castello e diedero alle fiamme alcune case di proprietà del vescovado.
La questione arrivò davanti al Papa che ascoltò il Varellis in presenza di Carlo D’Angiò. Il Vescovo, che era accompagnato dal domenicano Buongiovanni Marino, pronunciò un discorso a nome di tutti i siciliani contro le vessazioni francesi, discorso rimasto famoso negli atti della storia del papato. Il re fece apparire di apprezzare l’intervento ben celando l’astio che nutriva nei confronti del vescovo, ma appena fuori dai palazzi papali, i due furono arrestasti dai soldati angioini ed imprigionati. Il Buongiovanni non sopportò la galera e morì poco dopo. Nonostante le scomuniche e le angherie subite, i pattesi, sempre fieri e generosi, raccolsero un’ingente somma di denaro con la quale corruppero le guardie carcerarie consentendo la fuga del loro vescovo.
Arrivò a Patti il 30 marzo del 1282, lunedì di Pasqua, proprio il giorno nel quale a Palermo iniziava la rivolta denominata i vespri siciliani. Radunò subito i pattesi e con un discorso carico di emotività raccontò loro cosa aveva patito nel carcere ad opera dei francesi. I pattesi con l’animo pieno d’odio insorsero uccidendo tutti i francesi che incontravano sulla loro strada. Ma la strage avvenne sulla porta del castello dalla quale dovevano passare gli stranieri per trovare rifugio nel maniero; dal quel giorno quella venne chiamata la porta della morte. Per i pattesi fu anche una sorta di vendetta per ripagarsi delle 25000 onze sborsate per agevolare la fuga del loro vescovo dalla carceri romane.
Durante la guerra del vespro, la città di Patti venne fortificata da Pietro d’Aragona per prevenire la riconquista della costa da parte degli angioini attestati nel castello di Milazzo. Fu costruita una possente cinta muraria con 5 porte e 17 torri , fortificazioni delle quali ormai ne è rimasta soltanto qualche tratto. Per la Sicilia lottarono alcuni pattesi rimasti nell’elenco degli eroi isolani quali Peregrino da Patti, Guglielmo Pallotta, Giovanni De Oddone oltre allo stesso Bartolomeo Varellis. Ma Patti subì anche distruzioni e saccheggi per opera degli angioini che riuscirono a riconquistarla per il tradimento del vescovo Pandolfo che volle così accontentare il Papa Bonifacio VIII° e dell’ammiraglio Giovanni Loria che nel frattempo aveva tradito gli Aragonesi. Il primo settembre del 1299, il re Giacomo d’Aragona sbarcò a Patti con una potente flotta; vi rimase per due mesi ospite del vescovo Giovanni II° che seguiva le indicazioni del Papa. Dopo la pace di Caltabellotta, nel 1303 i pattesi rientrarono nella propria città che trovarono distrutta.
Con la forza che li caratterizzava, la ricostruirono e chiesero a re Martino che fossero dichiarati liberi da qualsiasi podestà. Il re così approvò le “consuetudini” e dall’11 luglio del 1312, Patti divenne città demaniale. Gli anni che seguirono furono caratterizzati da lotte fra vescovado e autorità civili. Alla Chiesa erano stati sottratti parecchi beni ed i vescovi non riuscivano a prendere possesso della sede. Nel 1345 il vescovo Pietro il Teutonico riuscì ad entrare nel suo palazzo che fece trasformare in fortezza per difendersi dagli attacchi dell’ autorità civile e militare della città.
Parecchi sono i personaggi e gli episodi che videro Patti alla ribalta nella convulsa storia della Sicilia. Nel 1535 il vescovo Albertino chiese ed ottenne dall’imperatore Carlo V la conferma dei titoli per la città nonché delle indipendenza amministrativa. Ottenne per essa il titolo di “Magnanima” e lo stesso Vescovo fu nominato Presidente del regno.
Altro grande Vescovo fu Bartolomeo Sebastiani che resse la diocesi dal 1549 al 1568. Fu nominato oltre che Presidente del regno, viceré per la temporanea assenza del titolare. Partecipò al Concilio di Trento durante il quale indossò un prezioso piviale donatogli dall’imperatore Carlo V°.
Vari furono i tentativi di sottrarre alla città beni e la stessa libertà, sempre prontamente riconquistata con enormi sacrifici. Durante la dominazione spagnola il viceré Ruggero de Paruta per recuperare denari alle asfittiche casse di Alfonso d’Aragona, vendette la capitania a certo Enrico Romano, a valere anche per i suoi successori. I Pattesi si opposero energicamente fino al punto di raccogliere i soldi e rimborsare al Romano la somma pagata per l’acquisto del titolo di capitano del popolo.
Patti era città completamente libera , esente da gabelle e dogane sia per terra sia per mare, su cose mobili e immobili; i pattesi potevano essere giudicati soltanto dai giudici della loro città; non potevano essere banditi da Patti; godevano di diritto di franchigia in tutto il regno. Il re Alfonso inoltre concesse alla città di fregiarsi dei colori del proprio casato e del motto “ Tyndarium et Pactarum urbs nobilissima et magnanima”. Era la sesta città del regno in quanto a ricchezze e benessere.
Patti, città ricca, fu attenzionata anche dai pirati. Nel 1544, Ariademo Barbarossa con trenta triremi sbarcò sulla spiaggia di Patti e mise a ferro e fuoco la città i cui abitanti si erano messi in salvo scappando nelle campagne. Quando i pirati turchi si ritirarono lasciarono solo rovine. I Pattesi , per l’ennesima volta, la ricostruirono cominciando dalle mura che furono edificate più robuste di prima.
Per impinguare le casse della corte spagnola, in guerra con la Francia, si misero in vendita titoli nobiliari , creandone persino di nuovi. Così avvenne che nacquero il titolo di duca di Montagna, marchese di Sorrentini e principe di Patti. Il titolo fu acquistato da un signorotto, certo Ascanio Ansalone, ben ammanigliato nell’alta società, per 20.000 onze. Ma, mentre con false promesse, riuscì a convincere gli abitanti di Montagna che cedettero e persero la libertà, per 4000 ducati, i Pattesi non gli consentirono di entrare in città. Dopo 14 anni di lotte, anche armate, riuscirono a riscattare la propria libertà versando al re di Spagna le 20.000 onze.
Patti mantenne la condizione di città demaniale e il titolo di principe di Patti rimase solo sulla carta e fu venduto a varie famiglie.
In ricordo della riacquistata libertà, ogni anno l’ultimo sabato di maggio, le autorità civili sogliono consegnare le chiavi della città alla Bruna Madonna del Tindari alla quale si erano raccomandati in quei tristi frangenti.
Il 5 luglio 1661 venne introdotto il culto di S.Febronia, concittadina e martire del IV° sec. che venne proclamata patrona della città.
Nella serata dell’11 gennaio del 1693 la Sicilia orientale venne interessata da un violento terremoto che distrusse interi paesi specie nella parte sud-orientale. I morti furono centinaia di migliaia. Anche Patti subì ingenti danni. I più colpiti furono la Cattedrale e i grandi palazzi. Vennero distrutte completamente l’ultima elevazione della torre campanaria caratterizzata dalle aperture a trifore, le tre absidi coeve e identiche a quelle del duomo di Cefalù, la volta e le cappelle laterali. I canonici, che erano riuniti nel coro, si salvarono perché l’orologio del campanile, stranamente, era avanti di mezz’ora e loro uscirono prima dei crolli. La torre era stata costruita dal vescovo Gilberto Hisfar nel 1588.
Per l’ennesima volta i Pattesi ricostruirono la loro città.
Nel 1713 termina il dominio spagnolo e il Duca Amedeo di Savoia fu nominato re di Sicilia . Frattanto la Spagna si riorganizzò per riconquistare la Sicilia e nel 1719 fece partire da Napoli un esercito di 18.000 soldati che, sbarcati a Patti, impegnarono le truppe austriache a Francavilla. In conseguenza di tale vittoria la Sicilia rimase per 14 anni sotto il dominio austriaco.
Nel 1734 i borboni conquistarono Napoli e la Sicilia e Carlo III° fu nominato re di Sicilia il 3 luglio del 1735 a Palermo.
Dopo la rivoluzione francese e l’avvento di Napoleone, Ferdinando di Borbone si rifugiò in Sicilia e nel 1810 visitò Patti e fu ospite del vescovo Moncada. Ferdinando concesse alla città il Senato in sostituzione dei giurati con l’onore di vestire la toga. In quel periodo, nelle città demaniali, fu introdotta la carica del Sindaco e fu istituito il consiglio comunale. Patti venne elevata a capoluogo di distretto.
Con il vescovo Moncada riprese l’espansione della città verso nord, iniziata dopo la distruzione avvenuta per opera del pirata Barbarossa. La frazione Marina subì un notevole sviluppo urbanistico e nacquero nuove attività produttive e si potenziarono tante attività industriali già esistenti. Dal 1825 al 1838 alla diocesi di Patti furono incorporati altri comuni fino a Cesarò, S. Teodoro e Capizzi , che così assunse l’attuale estensione.
Durante il risorgimento, Patti ebbe parte attiva nei moti e ne fu riferimento politico e logistico, tanto che per punire Messina per essere stata la prima città della Sicilia a ribellarsi ai Borboni, gli stessi trasferirono il capoluogo della valle a Patti. Parecchi pattesi furono attivi politici e militari rivoluzionari con Don Pietro Greco Zito, Francesco Accordino, Antonio Ceraolo, Nicolò Gatto Ceraolo e tanti altri affiliati alla carboneria ed alla massoneria. Prima dell’arrivo di Garibaldi , durante la repressione borbonica, la maggior parte dei patrioti pattesi furono arrestati ed imprigionati.
Nel 1859, Francesco Crispi, tenne in contrada Vigna Grande, forse in proprietà Sciacca, una riunione per aggiornare i Pattesi e i rivoluzionari del distretto sull’attività preparatoria dello sbarco in Sicilia.
Nell’aprile del 1860 Rosolino Pilo e Giovanni Corrao avviarono da Patti un’intensa campagna rivoluzionaria che coinvolse tutto il distretto.
Il 18 luglio 1860 Garibaldi sbarcò a Patti accolto dal sindaco Giovan Battista Natoli Calcagno e dai rappresentanti dei comitati rivoluzionari. Qui venne a conoscenza della rivoluzione di Alcara li Fusi e prontamente inviò sul posto un drappello di suoi uomini per punire coloro che in nome di quella libertà da lui stessa proclamata, si erano ribellati alle autorità civili borboniche.
Il 20 agosto del 1860, dopo un rapidissimo processo, sul sagrato della Chiesa di S. Antonio Abate fuori le mura, furono fucilati 12 cittadini di Alcara li Fusi “……colpevoli di eccidio e vittime di antichi soprusi”. Questi , come tanti siciliani, avevano creduto nella liberazione che Garibaldi aveva promesso.
La notte fra il 18 e il 19 luglio, il generale organizzò l’attacco al castello di Milazzo.
Il 18 gennaio 1861, Garibaldi indirizzò al Sindaco di Patti una lettera di ringraziamento per la le generosa accoglienza ricevuta dai pattesi.
Il 4 aprile del 1861 veniva attivato in Patti il comando militare circoscrizionale con sede nell’ex convento di S. Maria del Gesù. Nello stesso anno veniva insediato il collegio elettorale circoscrizionale con competenza su 13 comuni.
Il 9 di febbraio 1862 venne istituito il tribunale e una sezione della corte di Assise, con competenza sui mandamenti di Naso, S.Agata di Militello, S. Angelo di Brolo e Raccuia.
Patti divenne sede anche di sottoprefettura con giurisdizione su tutta la parte occidentale della provincia di Messina.
Nel 1866 nacque il regio ginnasio. In pochi anni Patti divenne centro propulsore di cultura. Sorsero altre scuole e collegi per ospitare alunni provenienti sin dalla lontana Mistretta.
Nel 1875 fu inaugurata la villa comunale intitolata al re Umberto I°.
Nel 1880 la città venne dotata di acquedotto, fognatura ed impianto di pubblica illuminazione a petrolio.
L’annessione della Sicilia al regno di Piemonte, non portò a Patti solo benefici amministrativi, ma segnò anche l’inizio del declino industriale. Prima dell’unità d’Italia erano attivi e fiorenti industrie come quella delle ceramiche d’uso che da sole impiegavano circa 2000 addetti, le concerie, le fonderie, le seterie, i molini e i pastifici. Le produzioni pattesi erano conosciute in tutto il mediterraneo e persino in Africa. Era attiva una corposa flotta di bastimenti che consentiva il trasporto soprattutto della ceramica e della pasta. Ancora oggi si possono ammirare i pregevoli lavori delle fonderie nella recinzioni del monumento di piazza Marconi, della villa comunale e di qualche fontana in ghisa ancora istallata. Oggi non esistono più tracce di queste fiorenti attività, eccezion fatta per l’attività della ceramica trasformatasi parzialmente in ceramica d’arte, perché le pentole e i “bummuli” sono state soppiantati da contenitori in altri materiali meno fragili.
Il secolo XX° quindi fu caratterizzato non solo dall’impoverimento complessivo dell’economia ma anche da una forte emigrazione come d’altronde tutto il meridione d’Italia.
Dal punto di vista storico vanno menzionate solo la visite di alcuni inviati papali, come il cardinale Ferretti, per verificare l’autosufficienza della diocesi. Negli anni 60, la Curia Romana ridisegnò la mappa delle diocesi italiane e grazie alla frenetica attività di un grande vescovo come mons. Giuseppe Pullano ( 1958-1978) la diocesi di Patti non subì la soppressione come quelle di Lipari e di S.Lucia del Mela che furono accorpate a Messina. Mons. Pullano, infatti, rinnovò le strutture della curia, ristrutturò il seminario riportandolo all’efficienza di un tempo, lo abbellì ma sopra tutto diede impulso alle vocazioni ecclesiastiche. Durante la sua amministrazione si ebbero quasi 200 seminaristi.
Gli interventi di recupero però ebbero un passaggio negativo, il parziale crollo e la demolizione successiva di ciò che rimaneva, del castello di Adelasia e del palazzo Ursino ( 1962), ultima testimonianza delle fortificazioni della città.
Il 12 giugno 1988, il Papa Giovanni Paolo II°, su richiesta del vescovo dell’epoca mons. Carmelo Ferraro, fece vista alla diocesi pattese , recandosi in pellegrinaggio al Santuario di Tindari.
Oggi la città di Patti vive di terziario e turismo, conserva le sue prerogative di città di servizi . Come popolazione è la terza della provincia dopo Barcellona e Milazzo e come centro amministrativo la seconda dopo il capoluogo.
La presenza dei numerosi giacimenti archeologici ne fa un polo turistico- culturale e storico fra i più importanti d’Italia.